Trilogie

di Vitaliano Corbi

L'incontro con i dipinti di Antonio Barbagallo è indubbiamente di un'intensità e di una freschezza percettiva notevoli. Già dalla soglia della dimensione figurale che essi aprono con un respiro largo e sicuro, evocando primordiali e sconfinate presenze di cieli e di terre, e prima ancora che si possa chiedere quale sia il rapporto di questa dimensione con alcuni segnali iconici e simbolici convenzionali che, ricorrendo con un certa frequenza, introducono nell'immagine il riferimento a modelli linguistici formalizzati, si rimane colpiti dalla pienezza fenomenica di una pittura che sembra muoversi tutta verso la superficie del quadro e, quasi disponendosi in perfetta frontalità, si offre qui interamente allo sguardo, senza che questo, come può accadere quando si frequenta l'area delle ricerche figurative, sia costretto ad avventurarsi in percorsi obliqui o a fermarsi di fronte alle insidie di una spazialità troppo precariamente affidata alle risorse dell' illusionismo pittorico. Lo spettacolo offerto dai dipinti di Barbagallo è di una chiara e, per così dire, nuda evidenza: di fronte a noi c'è una materia densa e compatta che chiude solidamente il campo visivo e lo trasforma in una sorta di barriera o di muro. La nostra attenzione è costretta a concentrarsi sui particolari della configurazione fisica della superficie, sugli spessori più ruvidi e accidentati e sugli impasti più fluidi e morbidi, sull'insieme intricato e mutevole dei grumi, dei filamenti, delle stratificazioni e dei solchi, che creano un paesaggio di tale suggestiva imminenza da spingerci quasi a passare dall'esplorazione ottica a quella tattile. L'importanza dell'impianto materico dei dipinti di Barbagallo si coglie ovviamente con più facilità quanto più esso, sgombro dalla presenza di altri elementi espressivi, tende a coincidere con l'immagine pittorica nella sua globalità. Ciò accade felicemente, ad esempio, nei pannelli della "Trilogia dei segni" - forse il più bello dei trittici recentemente realizzati dall'artista napoletano - dove le delicate velature del colore e il tracciato rapido e graffiante dei segni non si sovrappongono alla materia per nasconderla, ma concorrono ad esaltarla, a farne sentire, come per un afflusso di umori e un fremito della pelle, il valore di frammento vivo, di brandello ancora palpitante di natura. Proprio per questa sensazione di aderenza ad un nucleo autentico di naturalismo, del tutto estraneo, però, ai modi del tardo verismo ottocentesco, riesce difficile non pensare che la pittura di Barbagallo debba in qualche modo essere ricondotta nel solco di quelle correnti dell' Informale che, in Italia certamente più che altrove, e in particolar modo nell'area di quell' "ultimo naturalismo" individuato con appassionata intelligenza critica da Francesco Arcangeli, piegarono con decisione i temi della ricerca esistenziale verso la riscoperta della natura. Questa veniva riaccostata nei suoi aspetti elementari , di più fonda e scarna essenzialità, non certo con l' intenzione di restituire credito alle tradizionali variazioni sul tema del paesaggio come luogo di rasserenata contemplazione e rifugio per le anime belle in fuga dall' inferno metropolitano, ma al contrario con la consapevolezza della ineludibilità del nostro rapporto con la realtà - la natura, appunto - che sentiamo premere e assediarci fuori e dentro di noi. Natura, dunque, anche come " strato profondo di passione e di sensi, felicità, tormento" (F. Arcangeli) e dimensione, perciò, non remota e attingibile solo attraverso la memoria, come vorrebbero le ideologie che vedono l'uomo prigioniero dell'universo delle forme simboliche da lui stesso prodotte, ma prossima e urgente, entro la quale si compie interamente la parabola della nostra esistenza e della stessa presenza storica dell'uomo sulla terra. Eppure, rispetto all'orizzonte informale. la pittura di Barbagallo rivela subito un'intensità diversa, legata all'attenuarsi di quell' urgenza esistenziale, al placarsi di quella furia del gesto e della materia che toccavano spesso accenti di struggente abbandono lirico o di straziata partecipazione emotiva, con un linguaggio di un'eccezionale e, proprio per questo, irripetibile immediatezza espressiva. In questi dipinti, che circa mezzo secolo oramai divide dalla prima apparizione dell'informale sulla scena dell'arte, c'è un modo più pacato di costruire l'immagine, per la convinzione che questa non possa davvero giovarsi, oggi, dell'istituzionalizzazione della poetica del gesto, nata nella concitata stagione dell' action painting, a meno di non volersi avvolgere nelle spire della più banale e insieme contraddittoria delle accademie, ma ha bisogno di strategie più circospette e di tecniche di seduzione meno violente. Le immagini di Barbagallo, infatti, vengono fuori con molta dolcezza e si accampano senza lacerazioni nello spazio del quadro, che non è più "l'arena", come diceva Pollock, di un' azione pittorica, di un evento consumato con la stessa irreversibile rapidità con cui sentiamo passare gli istanti del nostro tempo vissuto. Il quadro è piuttosto il luogo di un attento processo di costruzione dell'opera, in cui a momenti di irruenza espressiva seguono altri di sorvegliate procedure tecniche e pause di riflessione. Quando si riconosca l'importanza per Barbagallo di questo modo di condurre l' esperienza artistica, utilizzando tecniche e materiali che non consentono all'artista di abbandonarsi al violento risucchio dell'inconscio, ma richiedono che la tensione espressiva sia sottoposta alla prova di tempi più lunghi, si comprenderà pure perchè in questi dipinti la materia non s' identifichi con l'impasto del colore, ma ne sia in un certo senso il presupposto, la struttura su cui il colore può darsi sia quale valore di superficie, che, nella sua bellezza puramente visiva, quasi senza corpo, gioca ad accordarsi e a dissociarsi dall'andamento plastico del supporto materico, sia quale valore di profondità, che concentra in sé il massimo della virtualità spaziale, fino a raggiungere gli effetti di uno spettacolare trompe-l' oeil. E gli esempi si possono leggere con tutta evidenza nei mobilissimi baluginii notturni del colore nel pannello centrale della "Trilogia delle stelle" e nello stupefacente illusionismo delle pietre sospese, in primo piano, in uno dei dipinti della "Trilogia del silenzio". Ci sembra che questo rapido accenno alla relazione particolarmente complessa tra la materia e il colore contenga la chiave per intendere anche ogni altro momento del linguaggio artistico di Barbagallo, poiché in quella relazione è presente l'idea che l'arte includa in sé un momento di autoriflessività, sì che il suo linguaggio non è mai semplice immediatezza espressiva, ma rivela una tendenza ad inarcarsi su se stesso, a parlare cioè contemporaneamente delle cose del mondo e dell'arte stessa. Come la materia, proprio perchè non coincide mai del tutto con il colore, instaura con questo un dialogo in cui il riconoscimento dell'identità s'intreccia continuamente con quello dell' alterità, così il segno, nella pittura di Barbagallo, mentre sembra nascere da una carica di energia miocinetica e possedere tutta la varia fenomenologia di un ductus che può sfiorare e accarezzare la superficie ma anche e più spesso inciderla e scavarla, a aprire solchi e ferite nella carne, tuttavia non ha nulla da vedere con l'automatismo della scrittura e del gesto che tanto nella poetica del Surrealismo quanto in quella dell'Informale diventano tramite di oscure pulsioni inconsce. In realtà ci sono molti indizi che fanno pensare che il segno nelle opere del nostro artista sia un segno di secondo grado e si collochi più che a livello della gestualità a quello della rappresentazione, persino nel senso che esso talvolta si direbbe "citare" un altro segno, mimandolo e, così, raddoppiandolo. Da qui deriverebbe la sua capacità di adeguarsi a diversi codici linguistici e di assumere infine la definizione rigorosa delle forme geometriche o la fissità enigmatica delle cifre. Il passaggio dalla pienezza fenomenica dell'immagine a un'intenzionalità espressiva orientata verso livelli linguistici più astratti trova un suo coerente sviluppo attraverso l'esigenza dell'artista di ordinare il suo lavoro in serie di trittici in cui assume valore sintomatico l'incrocio dei titoli delle serie con quelli dei singoli pannelli, quasi a rafforzare la trama concettuale che sorregge le immagini. All'interno della "Trilogia del silenzio", infatti, al silenzio degli uomini rispondono il silenzio della terra e quello del cielo. Ma è ancora più interessante notare come sia tutto l'insieme delle "Trilogie", poi, a riprendere e a svolgere questa linea di significati, unendo il silenzio e i segni dell'uomo con quelli del tempo e delle stelle. In questo modo il pittore ci aiuta a comprendere come il destino dell'uomo possa tornare ad annodarsi per i percorsi della natura, come già era accaduto nell'esperienza dell' Informale, di cui Barbagallo ora, in un diverso contesto culturale, accoglie e, s'è visto, rinnova l'eredità. E forse anche per questo i suoi quadri diventano il luogo delle nostre interrogazioni sul senso della vita e insieme dell'arte stessa.

 

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